La morte sfila per le strade di Città del Messico e dietro la maschera di un teschio. In missione per conto di M, la defunta M che gli ha lasciato un video e un incarico spinoso da risolvere, James Bond sventa un attentato e uccide Marco Sciarra, terrorista legato a SPECTRE, una misteriosa organizzazione criminale e tentacolare. Il suo colpo di testa gli aliena Gareth Mallory, il nuovo M alle prese con pressioni politiche e Max Denbigh, membro del governo britannico che non vede l’ora di mandare in pensione i vecchi agenti dell’MI6 e di controllare con tanti occhi le agenzie del mondo. Congedato a tempo (in)determinato, Bond prosegue la sua indagine contro il parere di Mallory e con l’aiuto dei fedeli Q e Moneypenny. Tra un funerale e un inseguimento, una vedova consolabile e una gita in montagna, l’agente 007 stana Mr. White, una vecchia conoscenza con crisi di coscienza e una figlia da salvare. Bond si fa carico di entrambe e protegge Madeleine Swann dagli scagnozzi di SPECTRE, amministrata dal sadico Franz Oberhauser. È lui l’uomo dietro a tutto, è lui il megalomane da eliminare. Madeline la chiave per risalire. Per risalire alla sua nemesi, per risalire il suo tempo perduto.
Con Skyfall la saga di Bond compiva cinquant’anni e stilava un bilancio. Sam Mendes, reclutato tre anni fa a dirigere il passaggio, si interrogava su un ‘corpo usato’ dentro un mondo per cui non era più adatto. Facendo tesoro del Batman di Christopher Nolan, Mendes decostruiva la leggenda e la rifondava procurandole una grotta, affiorandone il trauma e confrontandola con un avversario psicotico. La posta in gioco era una donna, la donna, la M-amma incarnata da Judi Dench. Skyfall riconduceva la serie alle origini, eleganza e humour british, e consolidava Daniel Craig dentro lo smoking dopo Casino Royale, che lo aveva lasciato ‘vedovo’ e inconsolabile e Quantum of Solace, che ne segnava l’avvento. Coerente coi caratteri nevrotici della sua filmografia (Era mio padre, Revolutionary Road), il suo Bond si prende tutto il tempo necessario a scavare la psicologia e alleggerisce il testosterone della serie, disegnando un agente intimo e interrotto di cui convalida la morte e poi la rinascita. Epopea crepuscolare Skyfallsprofondava nelle e ripartiva dalle lande scozzesi, luogo natale di James Bond questa volta alla prese con l’eredità materna (il video di M) per risalire a quella paterna. Per farlo avrà bisogno della sua madeleine, elemento rivelatore impersonato da una donna, la dottoressa Swann di Léa Seydoux, che lo invita a fermare l’azione per pensare e ripensarsi. A sdraiarlo sul lettino provvede invece il villain di Christoph Waltz, precipitato di un passato remoto che ‘vive anche tre volte’ e vorrebbe trattenerlo in un’adolescenza irriducibile affollata di Bond-girl intercambiabili e castranti. Ma il bacio di Madeleine produce il ricordo di un tempo sepolto nella memoria, riemerge alla coscienza, diventa presente e ritrova James a Bond, la saga al cinema. Perché in quel bacio c’è la dichiarazione poetica di Mendes e del suo film proustiano, che cerca e trova il perduto, che esprime le più impalpabili sfumature umane, che riscopre ed esalta, aggiornandoli all’esigenza del momento, la definizione di eroismo, l’originalità della copia, la rutilante presenza dei sentimenti, l’amore per la performance, le traiettorie e la balistica.
Impossibile non vedere nella determinazione dei personaggi a battersi à l’ancienne (Bond e Mallory in cima) una metafora del cinema, che afferma il gusto per l’analogico, l’artigianale, i fondamentali, il campo. Nei Bond di Mendes si affrontano il passato e il mondo contemporaneo alimentando un dibattito vivace e qualche volta contraddittorio. A chi pensa che James Bond non sia (più) buono a nulla, il regista obietta e avanza una rilettura del mito che garantisce ilfranchise, aderisce alla tradizione e guarda al futuro. Per Mendes Bond è come il nero nella moda, ritorna sempre. Perché il nero non è mai pensiero inespresso ma sintesi di potenza che si addensa disegnando la linea, definendo la silhouette. Quella celebre del tema musicale di ogni Bond-movie, inquadrata dalla soggettiva impossibile della canna della pistola di un ipotetico avversario contro cui Bond spara. Perché lui ha sempre la licenza di uccidere. Oppure no. Come ricorda Gareth Mallory al nuovo arrivato, voyeur informatico e arrogante. Nero è pure l’inchiostro dell’octopus (simbolo di SPECTRE) e le note con cui Sam Smith scrive sui muri e sui titoli di testa (“Writing’s On The Wall”), nero il buio che ‘solleva’ dietro di lui Franz Oberhauser e il lutto che rielabora Bond dentro la ‘camera verde’ di Mr. White. Luogo fisico e luogo della mente che conserva brani di memoria del protagonista e ne avvia il processo analitico.
Pronto ad accogliere il ritorno emotivo, vivo, presente ma irrimediabilmente passato, l’agente di Fleming affronta il dolore, trova la spinta vitale e spezza l’implacabile coazione a ripetere che determina la struttura complessiva della serie. Su un treno-alcova, lo stesso di Intrigo internazionale, Craig supera il complesso (edipico) e la sessualità primordiale e incestuosa del suo personaggio. Spectre – 007 è un racconto di formazione in chiave freudiana il cui esito finale è la sostituzione della madre con la ‘moglie’, emblematicamente raffigurata dall’avvicendamento delle donne sulla leggendaria Aston Martin. Mezzo di fuga per scampare M in Skyfall, auto a due piazze in Spectre – 007 per inserirlo nel sistema della realtà sociale a fianco di Madeleine.
Blockbuster spettacolare che si dà arie d’autore, popolare, intelligente e integrato in una logica commerciale aggressiva, Spectre – 007 esibisce l’appealcorporeo di Daniel Craig, il suo trionfo virile, il suo incedere fluido che impugna pistole dopo aver aggiustato i gemelli innescando un processo di armonizzazione tra corpo idea e corpo evento. Un corpo che sa rispondere efficacemente ed elegantemente ad ogni sorta di contingenza dentro un film che un incredibile atto di auto-cinefilia alimenta col suo patrimonio.
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