Lo Studio Ghibli immortalato nella sua routine di lavoro, durante la gestazione delle due ultime sofferte opere: Si alza il vento di Miyazaki Hayao e La storia della principessa splendente di Takahata Isao. Un sogno che si avvera, per i fan e non solo. Cercare di visualizzare concretamente qualcosa di ancor più impossibile dei paesaggi fantastici di Miyazaki: il segreto di una delle più incredibili fucine di talenti del cinema degli ultimi decenni. Sunada prova a farlo, dando la parola a Miyazaki Hayao e Suzuki Toshio, la mente e il braccio dello studio, il creativo che tra una caustica stilettata e l’altra partorisce mondi e regala sogni e il manager, per quanto sui generis, che fa sì che la macchina proceda senza che i bulloni si incastrino negli ingranaggi. Resta quasi costantemente fuoricampo, invece, Takahata, l’uomo a cui in primis si deve l’esistenza stessa dello studio Ghibli: schivo e refrattario a scadenze e pianificazioni, Takahata conduce il suo team dalla parte opposta di Tokyo rispetto a Miyazaki e Suzuki, su cui invece si concentra il documentario.
La macchina da presa di Sunada Mami arriva fin quasi sul tavolo di lavoro di Miyazaki Hayao, affiancandolo durante il suo processo creativo e svelando lati inediti della sua personalità. All’autore di La città incantata bastano poche battute per svelare di più sul proprio carattere, molto lontano dalla figura assimilabile a un canuto Babbo Natale dell’immaginario collettivo. A emergere è il ritratto di un uomo spesso cinico, disilluso, pessimista, anche a causa di quanto avvenuto a Fukushima, orrida e autolesionistica riproposizione di un incubo nucleare già vissuto. Durante la gestazione dell’opera più difficile della propria vita, Si alza il vento, il regista è attraversato dai dubbi su come affrontare una materia così delicata e così autobiografica, fino a liquidare Porco Rosso come “un’opera stupida” perché non ideata per il target dei bambini o a definire la ricerca della felicità insensata, nella vita come nel cinema. Forse un atteggiamento di fronte alla camera, forse no, considerata la comprensibile stanchezza di un lavoratore indefesso (tutti i giorni in ufficio dalle 11 alle 21) della fantasia, consapevole di essere al crepuscolo (“Cosa ne sarà della Ghibli dopo il suo abbandono?” “Andrà a pezzi, inevitabilmente”) di una lunga carriera.
Lavorando nell’ombra Sunada, già assistente alla regia per Koreeda Hirokazu, carpisce altri momenti anche umanamente delicati, come la candida confessione di Miyazaki Goro, figlio di Hayao, che quasi palesa la sua riluttanza a dirigere un nuovo film, nonché a considerarsi un regista di film di animazione. Una conversazione rubata a un meeting di lavoro che permette di intuire come il fardello ingombrante di cotanto padre possa aver influito. Nonostante la lunghezza di due ore, quindi, Il regno dei sogni e della follia quasi mai indulge fino a mostrare qualcosa di gratuito, pur dovendo rinunciare alle parole di Takahata Isao e al suo prezioso punto di vista, mentre stava ultimando uno dei vertici dell’intera produzione dello Studio (oltre che suo ultimo film, come per Miyazaki). Occorre accontentarsi delle parole dell’allievo, poi amico e poi rivale, che punzecchia ripetutamente Takahata come incapace di portare a termine i propri lavori, pur riconoscendone l’enorme talento. Una testimonianza di inestimabile valore sul dietro le quinte di una fabbrica dei sogni, che aiuta ancor più a comprendere come questi (e la loro “follia”) siano nati.
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