Josh e Cornelia – lui regista di documentari in crisi creativa, lei produttrice – formano una coppia che sembra avere tutto ma a cui pare mancare moltissimo, specie l’accettazione del tempo che passa. Quando si imbattono nei giovani Jamie e Darby – anche lui regista di documentari – e cominciano a uscire con loro, la vita di Josh e Cornelia cambia e si adegua al loro stile di vita esuberante.
Dopo aver analizzato con realismo e affetto l’inconcludenza di una ragazza di fronte alla maturità in Frances Ha, Noah Baumbach osserva il suo contrario, l’incapacità di accettare il trascorrere del tempo. E per farlo perfeziona il suo studio post-alleniano di tipi sociali e intellettuali incentrato sulla Grande Mela: a confrontarsi sono una coppia di Millennials (nati tra gli anni ’80 e gli Zero) e una di Gen-Xers (nati tra gli anni ’60 e gli ’80), ambedue tratteggiate con dovizia di particolari. Come in un gioco di carte, Jamie e Darby recuperano gli scarti della generazione precedente e li riutilizzano per realizzare qualcosa e affermare la propria identità: non solo i vinili e le macchine da scrivere, ma persino le Vhs cancellate dal progresso tecnologico diventano uno status symbol, diventano cool. Ma la voracità intellettuale dei Millennials, il loro sincretismo del riuso, che spazia ovunque senza approfondire mai, entra ben presto in contrasto con la verticalizzazione esasperata e l’approccio rigoroso di Josh.
Attento al dettaglio come un pittore fiammingo, Baumbach non abbandona mai il lavoro di cesello. Non c’è angolo di sceneggiatura o di dialogo, seppur rapido fino all’inudibile, che non sia studiato e perfettamente consono alla situazione: il Cd dei quarantenni rassegnati e felici non può che essere quello di Wilco, così come i primi nomi di artisti citati non possono che essere Wiseman, Albert e David Maysles e Pennebaker, i padri spirituali del documentario contemporaneo. Lo spettatore intellettuale e smaliziato è così appagato e obbligato al coinvolgimento. Un Woody Allen 2.0 con qualcosa in più, benché la fedeltà nello spirito al regista di Manhattan sia totale: sarebbe impossibile pensare a Giovani si diventa tralasciando il capolavoro dell’amarezza di Woody Crimini e misfatti, richiamato esplicitamente anche da diversi elementi della trama (il documentario irrealizzabile, l’inganno del purismo e il trionfo della menzogna e del vanesio). Diversamente dall’Alan Alda di allora, però, l’Adam Driver di oggi non è un personaggio (solo) negativo: fa quello che fa perché naturalmente portato a farlo. A guidarlo è l’istinto del mescolatore e del manipolatore di influenze, che centrifuga idee e contatti di lavoro superando il concetto di “furto” e la barriera del cinismo, dove Stiller/Josh appartiene a un mondo in cui esiste ancora un codice, con delle leggi morali, che spesso sono un mero paravento sotto cui nascondere la propria timidezza creativa o l’accettazione un po’ perdente (e molto Generazione X) del concetto di irrealizzabile. La generazione (che si sente) “saltata” e che vede materializzato il proprio incubo quando il suocero e decano del documentario incontra l’ambizioso Jamie e scocca la scintilla.
Baumbach gioca con l’ossimoro anagrafico in chiave di commedia intellettuale newyorkese e lo trasforma (apparentemente) in thriller sull’arte della truffa. Mentendo in entrambi i casi e ingannando Josh almeno quanto lo spettatore. L’unico limite di un’analisi spietata, meticolosa e assai divertente, benché in agrodolce, è rappresentato dai personaggi femminili, che non godono dello stesso trattamento approfondito di quelli maschili – specie quello di Darby, irrisolto e al più funzionale come gancio dello script. Preziosa la colonna sonora di James Murphy (LCD Soundsystem), che chiude sul David Bowie più funk e su un muro di mattoni rossi un’altra storia della Grande Mela, di sogni in frantumi e di vite che rinascono da quelle ceneri.
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