Tra tutti gli impiegati del grande motore di ricerca per cui lavora, Caleb è stato scelto per il prestigioso invito nella residenza del mitologico fondatore della società e inventore dell’algoritmo di ricerca. Arrivato in una zona a metà tra la magione irraggiungibile (lo porta un elicottero privato che si ferma diversi chilometri prima del primo edificio) e il rifugio zen, Caleb comprende di essere stato scelto da Nathan per un importante esperimento. Da decenni infatti Nathan è al lavoro sulla costruzione di un’intelligenza artificiale e Caleb deve testarla per capire se abbia raggiunto o meno il suo obiettivo. Il modello attuale con cui Caleb si confronta si chiama Ava, ha forma umanoide, pelle e circuiti, ragiona ed è conscia del suo status. Dopo i primi giorni Caleb comprende però che c’è qualcosa che non va, le frequenti ubriacature del capo, i moltissimi luoghi della magione in cui non può entrare e alcune strane confessioni di Ava compongono un mosaico più inquietante di quel che non sembrasse all’inizio.
Ha davvero un’anima molto classica Ex machina e fa di tutto per mascherarla con un efficace maquillage modernista. Questo film di fantascienza psicologica, tutto basato sulla parola e sul ragionamento, è strutturato intorno ad uno scienziato che si spinge oltre quello che dovrebbe essere consentito, dove la scienza sfiora il “disturbante”, e sperimenta nel suo castello remoto ed inaccessibile con quella che chiamiamo vita (una sequenza rivelatrice mostra immagini a circuito chiuso dei passati degli esperimenti di Nathan con il corretto tono gotico/spaventoso). Accanto a lui un più giovane e inesperto ragazzo di scienza che si lascia contaminare troppo da quel che vede. Tra di loro una “creatura” che somiglia più ad un Golem.
Nello scontro di intelligenze a tre del film Nathan, Caleb e Ava combattono tramite la parola (almeno fino a poco dal finale) una guerra di strategia e menzogne in cui, come spesso capita nella fantascienza contemporanea, sembra che solo il video registrato possa rivelare la verità. La realtà guardata con gli occhi è la cosa più ingannevole in assoluto, terreno di mistificazioni, mentre il video è la realtà, lo strumento di conoscenza del mondo per come è realmente, l’arma che svela gli inganni. È quindi tutto ciò che è tecnologico a meritare fiducia mentre l’analogico si dimostra costantemente insufficiente a reggere la pressione del confronto con l’inumano, non fanno eccezione gli uomini.
In questa gothic story ottocentesca modernizzata di uno scienziato impazzito che cerca di giocare a far Dio e delle creature frutto dei suoi esperimenti, il ritmo è rallentato e il passo calmo per cercare una dimensione confortevole per lo spettatore, una in cui possa ridere dei balletti disco di Nathan e intuire la presenza di segreti inconfessabili. Come per il mito di Frankenstein anche qui il punto di tutto sarà chiedersi chi dei personaggi in ballo sia davvero il mostro e chi meriti l’appellativo di essere umano (la risposta purtroppo è abbastanza scontata).
Alex Garland (già sceneggiatore di Sunshine, 28 giorni dopo e The beach per Danny Boyle) torna sui temi di Non lasciarmi (che aveva adattato) immaginando un setting tecnologico più che contemporaneo, spargendo qualche riferimento adeguato alla maniera in cui i padroni dei motori di ricerca hanno, oggi, il mondo e le informazioni di tutti nelle loro mani, per descrivere un’intelligenza artificiale basata proprio su questo, sull’accesso ad ogni informazione tramite il motore di ricerca e i dati sugli esseri umani del pianeta. Infine lentamente si pone dalla parte dell’inumano piuttosto che dell’umano per raccontare nuovamente dell’insopprimibile desiderio di vivere.
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