Sono sei anni che è morto il marito di Amelia e sei anni che è nato Samuel, il suo unico figlio, cresciuto senza padre da una madre single in grandi difficoltà economiche e distrutta dallo stress causato dalla sua iperattività. Il bambino non dorme bene, la tiene sveglia, spaventa i compagni, si fa riprendere a scuola, è violento, non ha molti amici per via di un temperamento esagitato e la stessa madre arriva quasi ad odiarlo. Le cose non migliorano quando nella loro vita si materializza un libro di favole diverso dagli altri, molto nero, cupo e spaventoso che viene prontamente messo via dopo la prima lettura ma continua a ripresentarsi fino a che la sua storia di un uomo nero che ti entra dentro fino a condizionarti non comincia lentamente ad avverarsi e intrappola i due nella loro stessa casa.
Che Jennifer Kent non sia una regista come le altre e che il suo The Babadook non sia un film dell’orrore come gli altri è subito evidente dalla prima inquadratura di Amelia che nei suoi sogni dolcemente cade nel letto in cui si sveglierà. L’australiana fonde una conoscenza della paura come raramente abbiamo visto con l’indagine di un carattere femminile sui generis per il cinema. La regista sa bene che l’horror può avere molti fini, che smuovere un profondo senso di instabilità e risvegliare fantasmi di terrore nello spettatore serve a qualcos’altro, è solo la prima parte di un processo che termina altrove. Nonostante sia quindi abile nel terrorizzare in realtà l’obiettivo di questa australiana all’esordio nel lungometraggio è un altro. Il suo film mentre si presenta come una classica storia di famiglie perseguitate rinnega qualsiasi luogo comune della messa in scena horror, non usa mai impennate sonore o anche solo apparizioni improvvise per prediligere un tono cinereo, una fotografia studiata in armonia con l’arredamento della casa (set principale di tutta la storia), in un continuo grigio funereo che solo lentamente lascia emergere il suo uomo nero. Anche la minaccia del titolo è mostrata con l’uso di una inusuale stop motion frenetica (come nei videoclip di Marilyn Manson degli anni ’90) e riferimenti ad un immaginario gotico burtoniano in cui però non c’è nulla d’adorabile.
Figlia diretta dell’Halloween di Carpenter per come inietta nella sua storia di paura una caratterizzazione profonda della propria protagonista, donna vessata da tutte le parti, madre single disperata, sommessamente in cerca di un inconfessabile desiderio amore, abbandonata da tutti e apparentemente destinata alla follia, Jennifer Kent fa uso delle migliori idee del moderno horror americano a basso costo (minimalismo di messa in scena, un luogo unico in cui ambientare gran parte della storia e gioco di montaggio furioso) e delle psicosi mentali nello stile di Aronofsky. Amelia nella sua lotta contro Babadook per salvare il figlio diventa le favole che legge a Samuel, i cartoni che vede in televisione, il lupo travestito da agnello, arriva a bussare alle porte e minacciare di abbatterle.
Le idee attraverso le quali The Babadook colpisce il cerchio delle regole del cinema horror (le fughe, le lotte contro la minaccia, i coltelli e le possessioni) e la botte di un sentimentalismo finalmente non di facciata (in più d’un punto è possibile commuoversi onestamente per la tremenda sete d’amore soppressa) sembrano non finire mai, il suo lungo delirio e la caccia che occupa tutta la seconda parte sono un piacere per gli occhi (basterebbe anche solo lo sguardo nell’ombra quando la vicina bussa alla porta) e, cosa rara, il terrore che infonde è il contrario dell’epidermica tensione degli horror più cretini, una profonda sensazione di disagio nei confronti del nero che respingiamo nell’angolo del nostro cervello per poi ritrovarlo che emerge dalle ombre, dentro gli armadi o sotto i letti. E proprio quando sembra che il film sia pronto alla sua chiusa, quando pare che il delirio di invenzioni e splendore debba terminare The Babadook presenta un finale come non si era mai visto, che getta una luce ancora diversa, paradossalmente conciliante, su tutta la storia per svelarne la natura di favola morale.
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