Due ragazzi, grandi appassionati di videogiochi ma in difficoltà nella vita reale, scoprono un luogo segreto. Tra le righe del codice sorgente di un noto videogioco, il suo sviluppatore ha inserito le coordinate per giungere in una stanza dove ha installato un macchinario in grado di trasportare la mente di chi “gioca” all’interno di ambienti virtuali simili ai più noti videogiochi (nessuno li nomina ma girano dalle parti di Assassin’s Creed, Call of Duty, Uncharted, Dance Dance e GTA). I due amici cominceranno ad esplorarli, uno nell’ambiente virtuale, l’altro dietro la console per guidarlo e lo aiutarlo. Nella ricerca di un modo per trasferirsi definitivamente nella realtà virtuale però si intrometterà la vita vera, che almeno per uno dei due (complice anche la “terapia” fatta nei videogiochi virtuali) comincerà ad ingranare con la controindicazione di rovinare il rapporto con l’altro amico più determinato a rifugiarsi per sempre nel mondo di finzione.
Era sicuramente un’ottima idea quella di travasare alcuni dei più grandi volti di YouTube al cinema, contaminare l’intrattenimento del grande schermo con le competenze, il tono e le idee di chi sul piccolissimo parla ai propri (quasi) coetanei. Indipendentemente dai possibili esiti, lo spirito pareva anche il migliore: una storia tra videoludico e reale. Sembrava davvero ciò di cui il cinema italiano avesse bisogno: un punto di vista diverso. Impossibile però guardare con favore un film come Game therapy che sembra girato in barba alle più elementari regole della narrazione, dotato di una trama piena di buchi e scritto (o sarebbe meglio dire “tradotto” visto che la prima stesura è stata fatta in inglese e si sente) in una lingua lontanissima da quella parlata. Sarebbe stato sciocco pretendere lo stato dell’arte del cinema, ma anche solo un film di buona fattura con qualche idea sarebbe stato più che accettabile.
La forza di Federico Clapis e Favij (i protagonisti della storia) è quella di appartenere ad una categoria più vasta che, prima nella storia, fa ciò che storicamente è stato sempre in mano agli adulti: ovvero l’intrattenimento per ragazzi. Il cambio di linguaggio non solo verbale ma anche audiovisivo è epocale, difficile da comprendere per chi non abbia l’età giusta e proprio per questo così necessario (il disprezzo che spesso generano è la miglior dimostrazione della loro novità). Che proprio due dei più noti youtuber vengano coinvolti in un’operazione molto più vecchia e tradizionalista di quello che fanno online è sconfortante. Game Therapy suona come un film di genere indipendente americano nei suoi momenti migliori (le riprese di seconda unità, ovvero inseguimenti e genericamente l’azione) ma come un brutto film tv nei peggiori. Racconta di due personaggi che reagiscono differentemente all’isolamento sociale non solo senza riuscire a renderne il dramma (sarebbe stato comunque un problema ma in fondo comune a tanti altri film), ma senza riuscire a spiegarlo. Se il personaggio di Favij ha una parabola chiara, molto meno lo è quella di Clapis. Come mai non si applichi, perché di colpo cominci ad andare meglio a scuola e da dove tragga le conoscenze che lo migliorano subitaneamente, cosa gli faccia cambiare opinione e come nasca il sentimento per la ragazza di cui si innamora sono tutti elementi spiegati malissimo se non proprio non raccontati. Ma è solo una parte dei problemi perché molto peggio però il film riesce a farlo con gli errori di continuità (personaggi che sono a terra in un’inquadratura, nella successiva sono in piedi).
Dall’altra parte la linea di trama più d’azione (sulla carta la più forte), quella che vede coinvolti i due in una dinamica da Matrix con i videogiochi, è sfruttata con il freno a mano, senza il piacere del partecipare dal vero ai videogiochi, senza l’eccitazione di un’esperienza di impossibile realtà virtuale. Da un film che si fregia della partecipazione di uno dei gamer più importanti d’Italia, una simile visione retroguardista della videoludica fa davvero specie e fa pensare più ad un punto di vista di chi ai videogame non ci ha mai giocato e non ne ha mai capito il senso che altro.
Che ancora il mondo virtuale sia un rifugio per disadattati in un film del 2015, uno per di più che vanta la partecipazione dei nuovi talenti del linguaggio e dell’intrattenimento anche videoludico, è quasi incomprensibile.
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